Tra le abitudini più radicate degli italiani, una in particolare spicca: il “rito” della tazzina di caffè appena svegli. Alzi la mano chi riesce a iniziare la giornata senza un po’ di caffeina. In pigiama a casa o appena usciti, per la maggioranza degli italiani il caffè mattutino è irrinunciabile. Tuttavia, secondo gli esperti, si tratta di una prassi sbagliata.
Il caffè al mattino aiuta davvero a svegliarsi? La domanda non è banale. Come spiega un nutrizionista a Leggo, l’idea che il caffè dia una scossa appena svegli è solo un luogo comune. La scienza adesso ha parlato e ha smentito questa credenza.
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“Non va bevuto appena svegli”. Caffè, il nutrizionista spiega il perché: quando e quanti al giorno
Il dottor Yari Rossi chiarisce: “Il nostro corpo non ha bisogno di caffeina al mattino”. In realtà, non serve alcuna spinta esterna per il risveglio, perché la natura ha già pensato a tutto. “Il nostro corpo produce un ormone chiamato cortisolo, che ha un effetto energizzante e ci aiuta a svegliarci”, aggiunge l’esperto.
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Il motivo per cui tante persone sentono il bisogno di una tazzina di caffè al mattino sarebbe invece legato a un’abitudine. Anzi, bere caffè appena svegli potrebbe addirittura ridurre i livelli di cortisolo, producendo un effetto opposto a quello desiderato.
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In questo caso si parla del cosiddetto “effetto placebo”. In sostanza, “associamo il caffè a una sostanza capace di risvegliarci”. Inoltre, “a lungo andare, il nostro corpo diventa così dipendente dalla caffeina che inizia a produrre meno cortisolo e a richiedere più caffeina per stimolare il risveglio”.
Ma allora, trattandosi comunque di un piacere, quale è l’orario migliore per guastarlo e in che quantità?. Il consiglio del nutrizionista agli italiani è chiaro: “Non bevete caffè appena svegli, ma posticipatelo a metà mattina. E, in ogni caso, è bene non superare le 2 o 3 tazze al giorno”.
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Va detto, però, che il caffè può offrire molti altri benefici, purché consumato con moderazione. Una recente ricerca pubblicata sulla rivista Neurology e condotta dall’Università di Utrecht ha evidenziato, ad esempio, il suo ruolo nella prevenzione del morbo di Parkinson.