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Il tempo indeterminato? Davvero non esiste più, per queste 5 ragioni

Tempo indeterminato: è il più grande desiderio di ogno lavoratore. Perché nonni e genitori hanno costantemente suggerito la necessità di trovare un “posto fisso”. Perché dà una chance in più nel chiedere credito, mutui compresi. Però, pur essendo una possibilità sulla carta, non lo è nella realtà. Tutto “gioca” contro: la difficoltà delle imprese, la congiuntura internazionale, il costo del lavoro troppo elevato per i datori. Un argomento non sempre facile da approcciare, come dimostrano le critiche a Matteo Renzi che, alla Leopolda, ha parlato di “fine del tempo indeterminato”. Ecco 5 ragioni che spiegano che, in fondo, il tempo indeterminato è già un ricordo del passato.

La statistica lo ha già superato
Tutto il resto è precario, flessibile, a termine. Il grosso dei nuovi contratti, ben il 69,7% nel secondo trimestre del 2014 secondo i dati raccolti dal ministero del Lavoro, è rappresentato dalla sommatoria di contratti di formazione, contratti di inserimento, interinali, intermittenti e contratti di agenzia. Poi c’è un 6,2% di contratti a termine, un 5,8% di contratti di apprendistato e infine un 3,1% di contratti di collaborazione. Su 2.651.648 nuovi rapporti di lavoro, dunque, solo 403.036 (227mila maschi e 176mila femmine) sono a tempo indeterminato. 

I contratti di un giorno 
La cosa curiosa è che di queste 2,43 milioni di cessazioni ben 403mila riguardano contratti che durano appena 1 giorno, 170mila tra due e 3 giorni e altri 380 mila non arrivano al mese pieno di lavoro. Solo 381mila contratti durano più di un anno. Se si analizza la serie storica che va dal primo trimestre 2011 al secondo trimestre 2014 si vede che in tre anni e mezzo lo stock dei contratti cessati ha toccato l’iperbolica quota di 34 milioni e 824 mila interessando 12 milioni e 147 mila lavoratori, che in media hanno pertanto subito 2,87 cessazioni a testa. 

 

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Tutti a termine 
Camerieri e braccianti agricoli si contendono la palma delle professioni più gettonate rappresentando rispettivamente la prima occupazione per la manodopera femminile e la seconda per quella maschile, la prima occupazione per gli uomini e la seconda per le donne. Su 179.815 braccianti maschi assunti nel secondo trimestre 2014 ben 178.689 avevano un contratto a tempo determinato e appena 988 uno a tempo indeterminato (126.376 i contratti relativi alle donne, con anche qui appena 6347 contratti a tempo indeterminato). Su 127mila camerieri maschi quelli assunti a tempo indeterminato sono stati invece 5.534, più o meno come per le donne (143.559 nuovi contratti e 6347 contratto a tempo indeterminato). Se si passa a tipologie di lavoro meno soggette a stagionalità il discorso non cambia più di tanto. Tra le donne su 78mila commesse assunte ce ne sono ben 52mila a tempo determinato, 5.700 in apprendistato, 6.680 con contratti precari e solo 12.100 assunte a tempo indeterminato. Idem per i maschi: se si guardano le qualifiche di manovale e muratore, ad esempio, si scopre che meno della metà dei nuovi rapporti di lavoro attivati per queste posizioni è stabile: 22.175 su 50.174 nel primo caso e 11.190 su 24.717 nel secondo.

 
I giovani: “Indeterminato? Anche no, l’importante è lavorare”
Secondo un’indagine Coldiretti/Ixé, meno della metà dei giovani italiani (46%) ambisce ad avere un posto fisso contro il 53% dell’anno passato. Quasi un giovane su tre (31%) vuole lavorare autonomamente. Ben il 51% sarebbe pronto anche a espatriare per trovare un lavoro, mentre il 64% è disponibile a cambiare città. Segno che, almeno sulla carta, la flessibilità poi non spaventa nemmeno tanto.

 
Intanto scompare il 56% dei lavori 
Qualche esperto sostiene che il posto fisso nei fatti non è esistito mai. Perché in seguito innovazioni, cambiamenti delle abitudini e globalizzazione è inevitabile che i vecchi lavori muoiano di continuo e i nuovi lavori nascano. Di qui al 2022, secondo l’indagine Career Cast, scompariranno taglialegna e tornitori assieme a giornalisti, tipografi, hostess, agenti di viaggio, postini e letturisti dei contatori. Apocalittica, in questo senso, una stima della London School of economics secondo cui in Italia ben il 56% dei lavori di oggi rischia di sparire entro vent’anni. Roba da fare gli scongiuri. 

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