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Cooperanti rapite, giusto pagare per riaverle?

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Non è il primo caso di rapimento di un nostro connazionale in zone di guerra. Giornalisti, militari, operatori della cooperazione internazionale. Sono le drammatiche conseguenze di un conflitto, soprattutto quando dall’altra parte viene combattuto enfatizzando le convinzioni religiose. E in ogni occasione i governi coinvolti e l’opinione pubblica si interrogano sull’opportunità di trattare con la parte avversa. Sta di fatto che è convinzione diffusa che lo Stato dovrebbe in tutti i modi possibili tutelare la vita dei propri connazionali, a maggior ragione quando un ostaggio è vittima di “avventure internazionali” del governo. Andrea Purgatori, sull’HuffPost Italia, propone un’analisi condivisibile, avvertendo che, in un modo o nell’altro, i paesi occidentali e non comunque “collaborano” con i sequestratori o con i loro referenti politici. Facendo affari, per esempio, con gli Stati che appoggiano, anche in modo non occulto, la guerriglia dell’Isis. Che senso ha, si chiede, rifiutare loro uno o dieci milioni di dollari se questo dovesse servire a riportare a casa Greta e Vanessa, le due cooperanti rapite in Medio Oriente? Se è vero ciò che ha scritto il Wall Street Journal – che per il giornalista decapitato era stato chiesto un riscatto di cento milioni di dollari – allora è lecito chiedersi se, in fondo, c’è un modo per non far pagare ai civili impegnati nella cooperazione e nell’informazione il prezzo di una guerra perenne.


Siria, il governo: “Vanessa e Greta non sono in mano all’Is”


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