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La disumana “tradizione” dell’infibulazione, ecco la storia di Hamdi: “Ogni giorno rivivo quel dolore…”

  • Storie

“Ogni giorno rivivo il dolore delle mutilazioni genitali subite quando avevo 7 anni”. Hamdi Abdurahman Ahmed è una ragazza somala di 30 anni. Accetta di parlare sulle colonne del Corriere della Sera soltanto perché ha sofferto troppo. E non vuole che altre donne possano subire la stessa tortura. Di quel giorno ricorda tutto: “Avevo soltanto 7 anni, ma dentro di me rivivo ogni istante: il dolore, le urla, le lacrime, il sangue dappertutto”.

Doveva essere un giorno di festa, almeno secondo la tradizione, invece è statoil momento in cui la sua giovinezza è diventata in un inferno. “Ero al mio villaggio, Afogoye, nella stanza di mia madre. In casa mia c’erano i miei familiari, mia zia mi teneva ferme le spalle mentre un’anziana signora mi faceva l’anestesia”. Poi il taglio: “Hanno usato un piccolo rasoio affilato da entrambe le estremità”. Uno squarcio netto, rapido e lacerante. “Non riuscivo a smettere di urlare dal dolore e dallo spavento, ero soltanto una bambina”.

E poi la cucitura della vagina: “Hanno usato ago e filo”. E’ rimasta appena una piccola fessura, soltanto lo spazio per urinare e far fuoriuscire il sangue mestruale. La mutilazione genitale femminile è un rito che si sussegue, quasi immutato nel tempo. Il 6 febbraio è la giornata mondiale contro l’infibulazione, un rito macabro che viene praticato in 28 Paesi dell’Africa sub-sahariana, con punte del 97 per cento delle donne in Egitto, del 90 per cento in Mali, Eritrea, Somalia. Hamdi viene proprio dalla Somalia, da quella terra che ancora rimpiange ma di cui stenta a comprendere il senso di questa tradizione primitiva. “Ancora oggi mi domando perché, mi domando quale sia il senso di questa assurda pratica, ma non trovo una risposta”. Nessuna risposta, soltanto tanta sofferenza. “Dai 7 ai 18 anni ho passato mesi terribili, tanti dolori e tanta paura”.

Hamdi è sopravvissuta, ma non ce l’ha fatta quello che sarebbe dovuto diventare suo figlio. “Avevo 17 anni quando sono rimasta incinta. La gravidanza è stata difficilissima e dolorosa, quando il bambino aveva 9 mesi e stava per nascere, è rimasto soffocato, è morto dentro di me”. Lei è viva per miracolo e oggi prova rabbia, soprattutto rabbia. E si batte per interrompere la tradizione dell’infibulazione. E’ arrivata in Italia sette anni fa con i barconi della speranza. L’adolescenza martoriata le ha dato un carattere d’acciaio. Oggi lavora come mediatrice culturale all’associazione Nosotras di Firenze.

 

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