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Brittany Maynard, la mamma contro la Chiesa: “Definire la sua scelta “riprovevole” è immorale”

“Giudicare una scelta personale come ‘riprovevole’ perché non conforme ai valori di qualcun altro è immorale. ‘Riprovevole’ è una parola molto dura. Da insegnante l’ho usata per descrivere le azioni di Hitler o altri tiranni e lo sfruttamento dei bambini da parte dei pedofili”. A parlare in è Debbie Ziegler, la mamma di Brittany Maynard, la 29enne malata di cancro morta lo scorso 1 novembre per eutanasia. Nella lettera diffusa dall’associazione che si batte per il suicidio assistito, Compassion e Choises, la donna risponde alle critiche del Vaticano aveva condannato il suicidio assistito di Brittany, morta con un cocktail letale di farmaci somministratole secondo la sua volontà.


Sono la madre di Brittany Maynard. Scrivo in risposta a vari commenti espressi sulla stampa e online da singoli e istituzioni, che hanno provato a giudicare attraverso le loro convinzioni ciò che per Brittany e la nostra famiglia è sempre stata una questione di diritti umani, Imporre le proprie convinzioni a una questione di diritti umani è sbagliato. Giudicare una scelta personale come “riprovevole” perché non conforme ai valori di qualcun altro è immorale.
La dolce morte scelta da mia figlia 29enne, invece di affrontare degrado fisico e mentale e intenso dolore, non merita di essere etichettata così da perfetti sconosciuti, che vivono in un altro continente, che non l’hanno conosciuta né sanno i particolari della sua situazione. “Riprovevole” è una parola molto dura. Significa “molto cattivo; che merita forti critiche”. “Riprovevole” è una parola che da insegnante ho usato per descrivere le azioni di Hitler o altri tiranni e lo sfruttamento dei bambini da parte dei pedofili.
Come madre di Brittany, trovo difficile credere che chi l’ha conosciuta avrebbe mai scelto questa parola per descrivere le sue azioni. Brittany dava tanto. Era impegnata nel volontariato. Era un’insegnante. Si occupava di deboli e bisognosi. Lavorava per rendere il mondo un luogo migliore.Questa parola è stata usata pubblicamente nel momento in cui la mia famiglia era più ferita. In lutto. Una critica pubblica con toni così forti da parte di persone che non conosciamo è stato come prenderci a calci mentre cercavamo di trovare respiro.
Le persone e le istituzioni che si sentono in diritto di giudicare le scelte di Brittany mi feriscono e mi infliggono un dolore indicibile, ma non mi dissuadono dall’appoggiare la scelta di mia figlia. Oggi è proprio la confusione e l’arroganza che trattiene molti che si avviano verso la dolce morte. A loro raccomando di riflettere da soli. Di formulare le proprie volontà quando sono in grado di farlo. Di farsi spiegare tutte le opzioni a loro disposizione, nel caso in cui fosse diagnosticata una malattia incurabile, debilitante, dolorosa.
Fate le vostre ricerche. Chiedete ai vostri familiari di aiutarvi mettendovi davanti alla dura realtà. Chiedete al vostro medico di essere brutalmente franco nei vostri confronti. E poi decidete come procedere, è la vostra scelta. La “cultura della cura” ha portato alla suggestiva convinzione che i medici possano sempre trovare rimedio ai nostri problemi. Così abbiamo perso di vista la realtà. Ogni vita finisce. La morte non in tutti casi è nemica.
Talvolta una morte dolce può essere un dono. Medici fuorviati, prigionieri dell’ambiziosa convinzione di dover prolungare la vita a qualsiasi costo, provocando a singole persone e alle loro famiglie sofferenze non necessarie. Brittany ha tenuto testa agli arroganti. Non ha mai pensato che ci fosse qualcuno che avesse il diritto di dirle quanto a lungo dovesse soffrire. Per chi è malato terminale il diritto di morire è una questione di diritti umani pura e semplice.
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