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Sette buone ragioni per odiare le riunioni di lavoro

La mitica riunione. Una consuetudine d’ufficio che resiste alle tecnologie ed alla crisi, e che per meglio affrontare i nuovi tempi si è camuffata sotto irresistibili inglesismi: meeting, briefing, staffing, brain storming (“tempesta di cervelli”, pensa un po’ che ottimismo).

Visto che di riunioni si può schiattare, può essere utile un veloce manualetto sulle principali manie che costellano le nostre riunioni. (dopo la foto)


Il “convocatore”. In genere è uno in carriera. Il vero potente fa due squilli e vede giusto chi conta, per un quarto d’ora al massimo. Il “parvenu” della stanza dei bottoni indice riunioni per il puro gusto di farlo, con la frenesia del neofita. E sono riunioni protese verso l’infinito: “dalle 14”… Fino a quando? Il neo-capo non è tenuto a dirlo, e infatti non lo dice: problemi vostri. Costui si riconosce non solo dalla frequenza con cui infligge incontri formali e istituisce “commissioni di lavoro” (versione stabilizzata della riunione); la sua vera specialità è la riunione “in progress”. La scena tipica è la seguente. Il convocatore chiama un funzionario, mentre gli parla gli viene in mente che vuole sentire anche un altro, poi trattiene un terzo che era entrato con delle carte in mano e intanto chiama a voce un quarto che passava di lì per caso (perché lui è democratico ed ha la stanza sempre aperta). Il risultato è molto spettacolare. Il convocatore alla scrivania, dodici funzionari in piedi in ordine sparso mentre il discorso è scivolato sul campionato di calcio e il convocatore intima alla segretaria “vedi come sto messo la prossima settimana, serve fissare una riunione”.

Il “convocatore-precisatore”. Chi conduce la riunione è quasi sempre convinto che i presenti siano del tutto superflui. Per questo, vi interrompe ogni dieci secondi per precisare il suo ed anche il vostro pensiero. È del tutto inutile che proviate a terminare la frase. È lui che vi ha convocato, è lui che trae le conclusioni. Se appena vi dà la parola compone un numero e inizia a telefonare, non vi offendete. Un manager fa sempre più cose insieme. Quindi, se non telefona parla sottovoce con la sua segretaria (che è entrata in sala, preoccupata che il capo sia via da così tanto tempo); oppure, quando iniziate a parlare taglia platealmente la corda con passo affrettato. Vedrete che, per miracolo, rientrerà un attimo prima che voi abbiate finito, e non mancherà di dirvi “grazie, un contributo molto utile, mi manda un appunto scritto?”.

Il “giro di tavolo”. Alcuni esperti di management suggeriscono di tenere le riunioni in piedi per evitare lungaggini. Sarà per questo che si tengono tutte comodamente seduti, spesso con acqua, caffè e altri generi di conforto in bella vista. Quando il relatore pronuncia la famosa frase “iniziamo con un giro di tavolo”, è bene disdire ogni appuntamento per le prossime otto ore. Anche i più riservati interverranno per raccontare di se stessi, con aneddoti tratti dalla vita familiare e dalla prima infanzia che servono ad introdurre il vero motivo della loro prolusione: finora ho taciuto, ma visto che me lo chiedete vi spiego io come deve funzionare questo posto, razza di incapaci buoni a nulla.

I “concentrati”. Il perfetto partecipante al meeting è sempre concentratissimo: su un foglio, un telefonino, un pc. La sensazione è che stia prendendo appunti (spesso, infatti, alza gli occhi per fissare colui che sta parlando), oppure consultando dati di decisiva importanza. Invece sta affrescando la pagina con degli arabeschi riproducenti i disegni all’uncinetto della coperta della nonna o, se più dotato, con architetture gotiche non meno complesse di quelle del Duomo di Milano. Al pc, è chiaro, controlla la posta elettronica ogni due minuti, con una sorta di ossessione compulsiva appena dissimulata dal fatto che il viso è coperto dallo schermo. Al telefonino, poi, manda messaggini a mezzo mondo, da “mi raccomando la grigliata!” fino a “mamma che palle, ma stasera conto di rifarmi topolina mia”.

Il “benaltrista”. Non manca mai: è quello che tace burbero tutto il tempo e poi interviene con l’aria di chi proprio deve. E sbotta: “Scusate, ma il problema è ben altro”. La sala è percorsa da un fremito: due ore di discussioni sono cancellate da tre parole. Nel silenzio teso dei colleghi, il benaltrista reimposta la scaletta, con frasi del tipo “attenzione, è troppo facile dire che” oppure “guardiamo le cose come stanno, evitiamo voli pindarici”, accusando implicitamente gli altri di essere dei pirla. In genere tale personaggio chiude come aveva aperto. Incrociando le braccia, come per dire “io vi ho avvisato, ora sta a voi”.

Il “catatonico”. È un partecipante che si acquatta nel posto meno in vista e non profferisce parola in nessun caso. In compenso, assume un’aria assorta, ai limiti dell’imperturbabile, al punto da stimolare gli astanti a fargli “bum” o a dargli uno scappellotto sulla nuca. Nessuno sa cosa pensi davvero. Sta di fatto che resta sulle sue persino quando la sala esplode in una forzatissima risata nervosa perché il capo ha fatto una battuta. Alla fine della riunione si alza serissimo e se ne va, mantenendo sempre l’aria di uno che riemerge da una camera iperbarica.

L’ “organizzatore”. È quello che, dopo che si è discusso per più per tre ore filate, pronuncia l’esclamazione fatidica: “Bene, ora però organizziamoci”, e tablet alla mano, illustra ai presenti la pianificazione dei 12 incontri successivi, fissati rigorosamente “dopo le 18, per non interferire con le attività lavorative”. 


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